La luce di Brussels è rapida e mutevole. Può cambiare in un attimo e senza preavviso, la grandine arriva violenta a tagliarti il viso laddove un attimo prima c’era il sole, senza lasciarti il tempo di cercare riparo. In questo fine aprile che ha il sapore freddo dell’inverno, il vento del nord spazza il cielo all’improvviso, alternandone i colori e accentuando i contorni della città. La luce di Brussels abbaglia e, insieme, ferisce; disegna una capitale in cui i contrasti convivono, la storia e il contemporaneo, l’arte e la politica e, oggi, la vita e la paura. Convivono e si alternano.
I militari che pattugliano il centro, il tappeto di fiori e candele che resiste a Place de la Bourse, le stazioni della metropolitana che hanno rinforzato la sicurezza e aumentato le telecamere, i trasporti non ancora tornati alla completa efficienza stanno lì a ricordare che il livello di allerta rimane alto. Eppure Brussels e i suoi abitanti vogliono vivere esattamente come hanno sempre fatto, tornare a come era prima, nei caffè sempre affollati, alle mostre e gli spettacoli, nei musei, nei teatri, nelle sale da concerto che hanno riaperto immediatamente, dopo il lutto nazionale.
A Molenbeek, l’ormai famoso “quartiere arabo” oltre il canale, ha appena inaugurato un nuovo museo, il MIMA – Millennium Iconoclast Museum of Art, un centro dedicato alle nuove forme dell’arte urbana nell’era digitale: è il primo del suo genere in Europa e non è un caso che nasca proprio a Brussels, oggi riconosciuta come la capitale culturale contemporanea del Vecchio Continente. L’inaugurazione – prevista per il 24 marzo, ma rinviata a causa degli attacchi terroristici – ha fatto da antipasto alla settimana delle fiere, tentativo di rinascita per la capitale belga, per scuotersi dalla paura e dall’immobilismo. Quasi un manifesto dell’identità.
A un mese esatto dagli attentati, mentre i feriti e parenti delle vittime delle bombe tornavano per una commemorazione nella stazione di Maelbeek, adesso riaperta, in rapida successione aprivano i battenti due degli appuntamenti più attesi dal mondo dell’arte europeo. Da una parte Art Brussels, storica fiera istituzionale e punto di riferimento; dall’altra Independent, fiera off newyorchese, dedicata alle tendenze più sperimentali, agli artisti più intraprendenti, che ha scelto proprio Brussels per sbarcare in Europa. Intorno a loro, una miriade di altri eventi; mostre collettive, solo show, talk nelle gallerie, centri d’arte, musei istituzionali. Non sono mancati gli italiani che qui da tempo hanno trovato linfa creativa e possibilità di sviluppo: Art Brussels ha accolto alcune tra le principali gallerie nazionali e inserito nel proprio programma collaterale un progetto tutto italiano, Fondaco, collettiva di diciannove artisti allestita in un’abitazione privata, anch’essa italiana, nell’elegante quartiere di Ixelles.
Eppure i mezzi pubblici sono meno affollati, la gente evita il centro e il sabato mattina, in una Gran Place ravvivata dal mercato dei fiori e dai venditori di acquarelli, non c’è il solito formicaio. Gli alberghi soffrono, negozi e ristoranti fanno fatica: qualcuno si è persino rifiutato di servire la cena al sindaco, criticandolo per delle misure di sicurezza che servono solo a rassicurare i visitatori ma complicano la vita agli abitanti. Perché, oltre il sottofondo dell’apprensione, a Brussels si respira soprattutto una gran voglia di normalità.
Così i locali notturni sono affollati e le fiere lo sono altrettanto, seppur meno del previsto. In tanti hanno mancato l’appuntamento, soprattutto da oltre oceano, gli americani e i cinesi. “Le loro autorità sconsigliano di viaggiare in Belgio – conferma Anne Vierstraete, managing director di Art Brussel – e anche noi abbiamo perso alcuni gruppi di collezionisti affezionati che ci seguivano da anni. Altri hanno disdetto all’ultimo momento, a causa della riprogrammazione dei voli”. Con l’aeroporto di Zaventen ancora danneggiato, il piano degli arrivi in effetti perde qualche colpo e “chi aveva in programma una visita solo per la fiera, non vuole piegarsi a viaggi complicati e scali scomodi. Ma tutti gli espositori hanno confermato senza esitazioni, nessuno escluso. Niente è cambiato nella nostra programmazione”.
Né in quella degli altri. Brussels tira dritto, facendo leva anche sulla cultura. “È la chiave per comprendersi – conferma la Vierstraete – perché ci aiuta a dialogare e porre domande, riavvicina le persone, mette a confronto le visioni, mescolando religioni e abitudini. L’arte ha bisogno più che mai di costruire occasioni di dialogo e, perché no, di provocazione. Noi belgi vogliamo vivere esattamente come abbiamo sempre fatto”.
Lo vogliono, ad esempio, le centinaia di persone che sabato scorso hanno partecipato alla ‘Slow Walk’, performance ideata dall’arcinota coreografa belga Anne Teresa de Keersmaeker: dai cinque angoli della città sono partiti, lentissimi, per confluire cinque ore dopo alla Gran Place, in una sorta di slow motion esploso poi in una danza collettiva. Una danza scomposta e gioiosa, libera e liberatoria, illuminata dai raggi del sole tornato a splendere, a scolpire in chiaroscuro i contorni di una Brussels che non vuole arrendersi.