Perché ci siamo fatti travolgere dall’uragano petaloso

Me lo ero immaginato subito, ieri sera, quando ho visto comparire la notizia sulla timeline di Facebook, condivisa da un’amica. Dopo un quarto d’ora, le condivisioni erano tre. Tre amiche che non si conoscono. Lì ho capito la portata della cosa: l’uragano petaloso ci avrebbe invaso a breve.

Stamani, infatti, così era. #petaloso era trending topic su Twitter da 12 ore – 12 ORE -prima ancora che il premier Renzi ci mettesse il suo carico di briscola.

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Allora, mentre pedalavo svogliata sulla cylcette circondata da tipi muscolosi che si guardavano allo specchio come io non faccio  nemmeno prima di una serata di gala – ho tentato di formulare una riflessione. Perché ci siamo fatti trascinare dall’uragano petaloso così, senza colpo ferire, senza tentare di arginarlo, come se fosse lo sbarco sulla Luna?

Per 4 motivi, secondo me:

1 -LUI: il protagonista è un bambino: e noi adoriamo i bambini. I bambini funzionano sempre: nello storytelling, nella pubblicità, nei film, sui social (battuti solo dai gattini, miao!), perfino nel più stantio, retrogrado e becero dibattito politico (ma questa è un’altra storia molto meno divertente, quindi la lascerò da parte, per ora).

2 – LEI: la co-protagonista è una maestra: giovane donna, assurta a simbolo di un mestiere che negli ultimi tempi è stato troppo bistrattato. Dalla riforma, dai concorsoni flop, dalle disquisizioni sui dipendenti pubblici, dai troppi casi di abuso. Chiariamoci: l‘insegnante è un mestiere degnissimo che gode del mio massimo rispetto. Di più: io credo che per fare l’insegnante si debba avere una sorta di vocazione pari, forse,e solo a quella necessaria per fare il medico. Eppure l’insegnante è un mestiere che ultimamente è scivolato in basso nella scala della figaggine: con questa maestra riabilitiamo, in un colpo solo, tutta la categoria.

3 – L’ALTRO: anzi l’altra, ovvero l’Accademia della Crusca. Una di quelle istituzioni lontane anni luce dal nostro quotidiano, fatte di studiosi un po’ impolverati che si occupano di temi che non ci toccano, che viaggiano sopra le nostre teste, inaccessibili, intoccabili, incommentabili. L’Accademia della Crusca è lassù, in alto, e stavolta invece si ‘abbassa’ al nostro livello: rispondendo a quel bambino risponde un po’ a tutti noi, ci fa sentire degni di considerazione, eleva la nostra conoscenza per osmosi e con la sua parola – è il caso di dirlo – ci rende tutti un po’ più accademici. E questa cosa, diciamocelo, ci garba. (che poi se aveste osservato l’attività dell’Accademia della Crusca sui social e soprattutto su Twitter avreste visto che, in realtà, è in atto un lavoro di ‘svecchiamento’ dell’istituzione già da tempo; ma per fare questo bisogna avere voglia di guardare e poi facciamo tardi a condividere su Facebook)

4 – IL SOGNO. Con una parola inventata e la sponda di una maestra sveglia, il piccolo bambino non commette un errore, ma cambia un pezzo di storia nella lingua della nostra madrepatria. Lo fa con la complicità potente e roboante dei social network. “La tua parola entra nel dizionario quando molti la usano” risponde l’Accademia. Ed è come lanciare carne fresca nella vasca dei piranha. I social network ci sono, affilano i denti, si gettano sulla preda perché è il loro momento: loro e quel piccolo bambino cambieranno la storia della lingua italiana.

Ecco il punto. Ci siamo fatti trascinare dall’uragano petaloso perché ci illude che un altro mondo è possibile e che cambiarlo dipende da noi. Dalla convinzione con cui impugnamo le nostre armi, dalla forza con cui digitiamo sulla nostra tastiera. Il gioco è fatto.
Perché, per restare in ambito scolastico, come dice ai suoi ragazzi il professor Keating, citando Walt Whitman, ne L’attimo fuggente:

Che v’è di nuovo in tutto questo, o me o vita? Risposta. Che tu sei qui, che la vita esiste, e l’identità, che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso. Che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso. 

O con un #petaloso.

ps – non ho competenza psicopedagogiche quindi mi asterrò da qualsiasi commento sulla validità o meno della scelta della maestra. Una critica ben espressa l’ha scritta Deborah Dirani sull’Huffington Post (e la leggete qui). D’altronde, mi piace anche l’idea che le regole intrappolino la creatività e che, quindi, un maestro possa anche assecondare a volte la follia genuina di un allievo, perché da quella follia potrebbe nascere qualcosa di buono. Non mi esprimo sulle due posizioni perché non ho i mezzi per farlo. Mi esprimo però su ‘sto Paese in cui ormai noi, tutti noi, siamo ciò che socializziamo. La realtà non è la realtà, è la socializzazione della realtà. E neanche più la notizia è un fatto, un accadimento reale, ma è solo la riuscita socializzazione di esso. Amen.

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