Ho preso un treno, stamani e sono partita. Il cielo azzurro, l’aria fresca, la voglia di cambiare vista anche solo per un po’. Di respirare altro ossigeno, diverso da quello in cui rischio di restare invischiata, a forza di stare qui, di mettere le mani e la testa e gli occhi nei meccanismi spesso distorto di questa città. “Ferma in tutte le stazioni” stavolta ha un suono meno lugubre. Perché non ho impegni, non ho orari, non ho tabelle da rispettare. Devo solo andare. Ho una borsa leggera e semivuota eppure mi balena nel cervello l’idea che potrei anche non tornare, stasera. Potrei restare fuori. Trovare un posto qualunque in cui dormire, allungare il numero di ore che mi prendo per me.
A Certaldo è salito un gruppetto di adolescenti. Quanti anni avranno? Sedici, diciassette credo. Sono sicuramente minorenni, altrimenti ci sarebbe stato tra loro qualcuno che metteva a disposizione una macchina e non si sarebbero ritrovati a prendere il treno. Quando sei adolescente il treno è una limitazione. Non è una scelta, è un’imposizione che ti ricorda continuamente che il tuo status è quello di “ragazzino-senza-macchina“. Solo più tardi, molto tempo dopo, diventa un modo diverso di viaggiare. Come per me oggi.
Sono una decina, i ragazzi, maschi e femmine. Parlano ad alta voce, si urlano da un vagone all’altro. Sono adolescenti casinisti e allegri in una probabile gita fuori porta, da ponte scolastico. Li guardo e un po’ li invidio. No, parecchio li invidio. Sarei disposta a pagare bene per tornare a quando avevo la loro età, agli anni del liceo, dei primi amori, delle amicizie che sarebbero state per sempre, delle utopie, della certezza che avevo di poter cambiare il mondo.
Invidio la loro leggerezza, anche se ogni età ha il proprio peso e lo sentiamo ogni volta diverso.
Li osservo. Non sono vestiti molto diversi da come eravamo vestiti noi. Simili gli uni con gli altri. Jeans. Giubbotti. Vanno ancora di moda le Dr. Marten’s evidentemente. Ma c’è una cosa che noto, più di ogni altra. Tutti e sei quelli che stanno di fronte a me hanno in un orecchio uno dei due auricolari delle cuffie, attaccate al telefono. E il telefono in mano. Digitano velocemente, qualcuno ascolta musica – la sento da qui – di sicuro sono su whatsap e stanno controllando i social. Questo non impedisce loro di interagire tra sé. Commentano. Parlano. Guardano persino quello che scorre fuori dai finestrini, senza mai staccarsi dal cellulare. Le dita veloci, le cuffie negli orecchi, gli occhi incollati allo schermo. Forse per la prima volta adesso capisco davvero cosa significa il termine “nativo digitale”. Osservo la loro capacità davvero multitasking di essere al tempo stesso presenti nella loro vita reale e attivi in quella virtuale. Stanno contemporaneamente nel loro gruppo fisico, sul treno, e in chissà quanti altri gruppi immateriali, dentro ai loro smartphone.
Li guardo e loro mi guardano, mentre sfoglio il giornale di carta modello lenzuolo che mi costringe a occupare metà dello spazio dell’altro sedile al mio fianco. Ai loro occhi devo essere praticamente decrepita, per quanto i miei anfibi, il mio vestito di lana, i miei leggins urlino ai quattro venti quanto io mi senta ancora come loro. O almeno quanto vorrei sentirmici. Li capisco. Alla loro età, una della mia aveva nella mia idea già un piede nella fossa.
Sono più grandi di quanto fossi io, di quanto fossimo noi. Sono più rapidi. Più svelti negli occhi. Hanno interazioni più adulte. Lo vedi da come si muovono, non solo perché hanno lo smartphone che io non avevo. E quel loro stare attaccati agli schermi e alle tastiere non fa di loro dei disadattati sociali, come spesso invece tendiamo a considerarli. Perché per loro quello strumento non è uno strumento. È parte integrante della loro quotidianità, del loro modo di vivere, del loro essere sociali. È quello che era per noi, forse, il pacchetto di sigarette. Un modo di stare gli uni con gli altri.
Ci penso, mentre controllo le notizie, le mail, chatto anche io sul telefonino. Come loro, ma in modo diverso. Non necessariamente migliore o peggiore, né più o meno consapevole. Semplicemente acquisito anziché innato. Io mi ricordo quando questo strumento non esisteva. Per me c’è un prima e un dopo il telefonino, un prima e dopo internet, un prima e dopo Facebook che rende le mie relazioni e le mie reazioni diverse dalle loro. Che rende loro, banalmente, appunto nativi digitali.
Scendo dal treno. Il telefonino lo metto via. La mia giornata ha una fruizione tutta analogica, chiacchiere reali, passeggiate reali, visioni reali che assaporo senza che mai mi venga la voglia di scattare foto, di postare, di inviare o di condividere quello che sto vivendo. La mia giornata è qui e ora. È come sarebbe stata prima.
Avrei voglia di restare fuori, di non rientrare. Di prendermi altro tempo, di sbaraccare gli impegni del calendario in un piccolo grande gesto di rivoluzione personale al mio essere adulta. Non ho un cambio ma posso comprarlo. Entrare in un negozio e prendere quello che mi serve. Non ho un posto dove andare ma posso trovarlo, scegliere una camera d’albergo e poi un ristorante dove farmi coccolare, dove scrivere, dove leggere, dove raccogliere i miei pezzi e le mie idee. Potrei farlo.
Invece no, non potrei. Stamani non ho messo in borsa il caricatore dell’iPhone.