Come sono tornata indietro 15 anni

Io odio le rimpatriate. Quando posso, evito accuratamente di tornare a cena con ex compagni di classe, colleghi universitari o gente con cui ho vissuto esperienze varie un millennio fa. Mi intristisco. Non ho figli di cui vantarmi, ma sono ingrassata lo stesso. Non ho nemmeno costruito una carriera strabiliante né vinto premi prestigiosi. Meglio stare alla larga dai confronti col passato. Finché si può. Poi, però, ci sono le Feriae. Arrivano puntuali, ogni anno, per metterti davanti al tempo che passa. Ti tradiscono, illudendoti di essere una celebrazione gioiosa della vita e lasciandoti poi invece, il giorno dopo, con un sapore amaro alla bocca dello stomaco, che non è (solo) il gin tonic ma l’amarezza della nostalgia.

Se non sapete di cosa sto parlando, questo è il sito ufficiale della Goliardia senese, questo invece è un post patetico che ho scritto un paio d’anni fa, in un attacco acuto di quella nostalgia. Se sapete di cosa sto parlando, invece, non avete bisogno che ve lo spieghi io.

Il punto è che a volte (di rado, e se sia purtroppo o per fortuna non lo so nemmeno io...) capitano occasioni straordinarie. Capita di ‘raddoppiare’ e ti ritrovi ad andare in teatro fuori stagione, col cappotto addosso e l’estate alle spalle e, maledizione, è proprio una gigantesca operazione nostalgia perché questa sorta di infame amarcord inizia esattamente dal “tuo” anno. Nel 2000 io ero matricola. Che quella operetta e quella canzone le abbia sempre sentite come la mia operetta e la mia canzone non ne ho mai fatto mistero. Ero una ragazzina che iniziava a costruirsi un percorso da donna e non sapeva ancora dove sarebbe andata. Né dove voleva andare.

Mi ero iscritta a scienze della comunicazione perché era il corso più moderno e innovativo che l’università offrisse a quei tempi anche se, forse, nemmeno ci era ancora chiaro cosa ne avremmo fatto. E perché, soprattutto, mi lasciava tempo. Tempo per pensare ancora, per rimandare la decisione su cosa volessi fare da grande. Non mi incasellava in un’unica professione. Mi lasciava spazio d’azione e costruzione di me. Io che rifuggo la stabilità, io che del “per sempre” ho sempre avuto paura. Ero in bilico, ma mi sentivo grande e fiera e “definita”, salda nelle mie convinzioni, nei miei “ideali” che oggi mi sembrano una parola opaca ma in cui allora, invece, credevo molto.

Mi sentivo giovane con tutto il mondo a portata di mano.

Guardavo i goliardi e i dottori, tutti poco più grandi di me, e mi sembravano adulti, ancora più definiti e solidi. Ondeggiavo per conquistare la mia porzione di luce sotto i riflettori, per conquistare la mia porzione di attenzioni non solo da parte degli altri, ma da parte della vita. Del futuro.

Quando, in teatro, è partita la mia canzone mi sono guardata intorno. Ho visto (alcuni) ragazzi e ragazze che ascoltavano con interesse e curiosità, ma che non capivano. Non capivano perché sono troppo giovani, così giovani che allora non c’erano e, mentre i bis si ripetevano allora uno dietro l’altro da tirare giù il teatro (l’altro teatro), loro probabilmente andavano alle elementari. Niente ti mette di fronte a te stesso come il confronto con chi è venuto dopo di te. Con chi ti vede oggi, mentre tu ti chiedi se ti guarda come tu guardavi allora i dottori, che ti sembravano così grandi adulti e definiti e che invece avevano, probabilmente, dieci meno di quelli che hai tu oggi.
E che sono pochi, per carità, pochi per fare un bilancio di te. Ma è inevitabile, quando una sola notte ti infila in una gigantesca macchina del tempo insieme ai volti e le storie di quindici anni fa, un paio di amori più o meno incompiuti, una manciata di amicizie rimaste o scomparse, qualche aspettativa dissolta, una spruzzata di relazioni tenute o spezzate e inizia a mescolare tutto, frullare, girare, shakerare.

Ti muovi e ondeggi ancora, come allora. In bilico tra le emozioni che hai vissuto e quelle che ha perso, i sogni che hai realizzato e quelli che non pensavi nemmeno di avere, quello che hai costruito e quello che invece hai frantumato, gli sbagli, i baci ricevuti e donati e negati, le confessioni sussurrate nel fondo di un bicchiere. Tra quella ragazzina di vent’anni e questa donna che non sa nemmeno cosa è diventata o cosa vuole fare di sé.

L’unica cosa che ti auguri, allora, è di non averla tradita quella ragazzina. Di non aver tradito il suo modo di essere, il suo sguardo ingenuo sul mondo, la sua ferma volontà di diventare una mente onesta. Di assaporare le occasioni, tutte quante, quelle buone e quelle sventurate, per potersi ritrovare ancora qui, tra altri quindici anni a chiedersi dove sono finiti, come sono passati, ma avendo mantenuto quell’unica, fondamentale promessa: che niente, nemmeno una stilla, sia andato perduto. 

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