Quando è deflagrato il famigerato – e amato dalle cronache – scandalo del ‘sistema Siena’, la prima e più frequente accusa che è stata mossa, alla città e ai cittadini, ai mezzi di comunicazione, agli osservatori, è stata quella della ‘collusione’. Il nostro reato – e dico nostro, che sono cittadina e giornalista pure io – è stato evidente fin da subito: mancato controllo. Non abbiamo guardato; non abbiamo ascoltato; non abbiamo letto le situazioni. Abbiamo accettato passivamente, supinamente, gli accadimenti. La spartizione delle poltrone, le scalate al potere, i cambiamenti nell’orizzonte socio-economico cittadino. Gli intrighi, i voti di scambio e lo scambio di favori.
Non siamo stati abbastanza ‘cani da guardia’.
E ora è facile dire che questo non è accaduto perché il benessere c’era per tutti (ma il benessere c’era davvero per tutti…). Perché la città restava saldamente da un ventennio in testa a tutte le classifiche della qualità della vita. Perché c’era un ateneo gioiello, lanciato per diventare una ‘piccola Oxford italiana’. Un Policlinico universitario d’avanguardia, dove arrivavano pazienti da tutto il mondo (e, in alcuni reparti specialistici, arrivano ancora). Un’Accademia prestigiosa come la Chigiana, tesori dell’arte antica che ci invidiano ovunque come la Maestà di Duccio, uno dei primi centri d’arte contemporanea d’Europa (il fu Palazzo delle Papesse).
E’ facile dirlo. Ma forse è vero. Non abbiamo osservato abbastanza, non abbiamo denunciato, non abbiamo scoperchiato la pentola delle nefandezze. E forse nemmeno credevamo che le nefandezze fossero arrivate a questo punto.
Oggi però le cose sono diverse. Lo scandalo è esploso con una violenza inaspettata e il suicidio di David Rossi, capo dell’area comunicazione di Banca Monte dei Paschi, ha segnato una notte destinata a cambiare per sempre la storia moderna di questa città. A fare da spartiacque tra un prima – quando sembrava forse ancora possibile continuare a ignorare – e un dopo in cui svegliarsi dalla fiaba, dal sogno, dall’irrealtà è non solo necessario, ma inevitabile. E, forse, anche tardi.
Allora la nostra prima responsabilità – di cittadini, prima ancora che di giornalisti – è cambiare passo: essere lucidi abbastanza, essere razionali abbastanza per leggere oggi le situazioni, comprendere gli scenari, contribuire al dibattito, immaginare il futuro. E’ mettere da parte i fanatismi e il tifo, rinunciando a sparare contro tutto ciò che si muove, rinunciando a inventarsi responsabilità per scaricarle altrove, secondo dove soffia il vento.
La nostra responsabilità – nostra, della città – è riflettere anziché urlare, pensare anziché prendere le parti di qualcuno, immaginare soluzioni anziché rimestare gli errori e gli avvertimenti, lanciati nel pozzo come cassandre ignorate. Oggi non serve dire io l’avevo detto. Non serve dire io non c’ero – che in parecchi casi, inoltre, è una menzogna. Oggi non serve nemmeno dire ce lo meritiamo. Avremmo potuto fare, vedere, discutere, cambiare.
Non lo abbiamo fatto. Cominciamo adesso. Con il cuore, sì. Ma soprattutto con il cervello.
Con poca lingua e tanta misura. Buon lavoro, a tutti noi.