Ludovica ha sei anni, una giacca rosa e un cappello di lana calato storto sugli occhi. L’abbiamo conosciuta attraverso quattro immagini, quattro fotogrammi in sequenza. Nel primo, la sua testolina arruffata spunta da un buco buio scavato nella neve ghiacciata mentre i soccorritori se le passano tra le braccia, uno dopo l’altro, in una catena di misericordia e tenacia che appare miracolosa. Nelle altre tre, Ludovica è avvolta in una coperta di lana e abbracciata – aggrappata – a un paramedico con gli occhiali e la tuta arancione. E’ aggrappata a lui che scende dall’elicottero sulla pista di atterraggio. E’ aggrappata a lui che la porta, in braccio, dall’elicottero all’ambulanza. E’ ancora aggrappata a lui, seduto dentro all’ambulanza col portellone aperto, subito prima che parta verso l’ospedale di Pescara, dove finalmente ritroverà la luce, il calore, l’aria salubre e, soprattutto, la sua famiglia. Ludovica è aggrappata al suo medico, come Giulia era aggrappata al vigile del fuoco che l’aveva estratta viva dalle macerie di Amatrice.
Gli occhi di Ludovica, sbarrati nel vuoto e senza una lacrima, ci guardano in questi scatti portentosi, colti dall’Ansa. Ci guardano scuri e, attraverso quegli occhi, noi guardiamo dentro quel buio, dentro la botola nera da cui è uscita la sua testa arruffata, la sua giacca rosa, e proviamo – soltanto proviamo – a immaginare l’orrore che deve aver visto là sotto, nel buio, nella notte, nel freddo, nel silenzio ovattato della neve, nella paura di non essere trovata mai più.
Da quando la valanga ha spazzato via l’hotel Rigopiano – di cui, fino a una settimana fa, neppure conoscevo l’esistenza – faccio un po’ fatica a respirare. Continuo a guardare dentro a quel buco e non mi libero dal pensiero del buio, della notte, del freddo, del silenzio ovattato della neve, della paura di non essere mai trovata mai più. Giovedì sera, quando ancora la notizia dei superstiti non era arrivata ed eravamo già convinti tutti – tutti noi persone qualunque, tutti noi tranne i soccorritori – che là sotto fossero tutti morti, camminavo verso casa nella notte e leggevo su Twitter gli ultimi aggiornamenti. Mi è mancato il fiato, a un certo punto, avevo le lacrime agli occhi e come un sasso a metà gola che non mi faceva respirare; mi sono accorta, di colpo, di esser in apnea, un’apnea orribile che mescolava l’amaro del pianto strozzato e la mancanza d’aria nei miei polmoni. Mi sono fermata e appoggiata al muro, ho dovuto distogliere lo sguardo dal cellulare, toccarmi come a dire “sei fuori, non sei in quel buco, respira, tu l’aria ce l’hai“. E’ stato solo un attimo. Poi sono tornata ad attaccarmi alle notizie, ad attendere, ora dopo ora, riga dopo riga.
L’hotel Rigopiano è, giornalisticamente, una storia strana. E’ LA storia, quella che vale le dirette fiume eppure non la si può raccontare, se non in differita. L’area, giustamente off-limits per i giornalisti che intralcerebbero i soccorsi e che sarebbero a rischio loro stessi, è lontana chilometri dal quartier generale di Penne. Lassù arrivano solo gli uomini che da giorni e notti scavano senza sosta, gli uomini miracolosi che salvano i bambini e gli uomini pietosi – gli stessi uomini – che recuperano dei corpi da rendere alle famiglie perché possano almeno piangere su qualcuno. E in tutto quello scavare, ascoltare, cercare, infilarsi in cunicoli sotterranei, bestemmiare e pregare forse in egual misura, sperando che la neve non decida di venire giù ancora, sta a loro anche occuparsi di noi. Di noi che siamo lontani, dietro gli schermi dei televisori, dietro i lanci delle agenzie e dietro le pagine dei giornali. Occuparsi di noi che guardiamo loro attendendo, ogni momento, di sapere qualcosa, di sapere di più, di capire, di vedere, di ascoltare. Loro scavano, ascoltano, cercano, s’infilano nei cunicoli di ghiaccio, si fanno guidare dai cani e intanto scattano foto e video per noi, e quando tornano stremati nella palestra che fa loro da quartier generale, giù a Penne, si mettono a disposizione dei giornalisti, si fanno intervistare, fotografare, raccontano, spiegano, analizzano e non perdono mai la speranza. Né la pazienza.
L’Italia è tutta qui, a guardare questi uomini senza poterli vedere. A seguire LA storia in diretta, senza vedere la diretta. Il Paese si stringe intorno a quel che resta di quell’albergo, assetato di informazioni, bisognoso di aver degli occhi per cui respirare – come quelli di Ludovica – o dei nomi da piangere finché, almeno, riposino in pace.
Sono passati 35 anni da Alfredino nel pozzo che tenne l’Italia incollata alle 18 ore di diretta Rai. Fu la prima diretta no-stop di un fatto di cronaca: oggi sembra scontato, all’epoca fu eccezionale. Chi era adulto in quegli anni si ricorda un Paese sospeso, inchiodato a osservare degli uomini intorno a un buco nel terreno, alimentando la speranza di vedere una testolina arruffata uscire da lì. Quei racconti, quei frammenti di memoria collettiva che sembravano strani mi sono tornati in mente all’istante, mentre scorrevo compulsiva la timeline di Twitter in cerca di aggiornamenti. Non sono stata la sola: lo racconta, meglio di me, Linda Varlese sull’Huffington Post. E in questa tragedia di Rigopiano sono felice, in fondo, che la diretta non ci sia. E che a guardare nel buio, nella notte, nel freddo, nella paura ci accompagnino soltanto, poco per volta, le mani e gli occhi instancabili di soccorritori dal cuore immenso.
ps – le foto in cui si vede Ludovica non le ho postate volutamente. magari un giorno lei o quel medico a cui è aggrappata vorranno dimenticare. e ne avranno il diritto. l’immagine di copertina è un frame tratto dal video dei Vigili del Fuoco.