La seta senza la poesia

Per molti anni non mi sono persa il momento della presentazione del Drappellone. Non solo perché è quel momento che, in un certo senso formale e ufficiale, dà il via alle ‘danze’ del Palio, ma anche perché c’è sempre stato in me un qualche interesse estetico, una volontà di capire – o meglio di scoprire – come l’artista di turno avesse interpretato, compreso, trasposto in colori tutte le emozioni e i significati racchiusi in questa festa antica. Se avesse interpretato e compreso abbastanza da trasporre in colori tutto quello che sta dietro quel drappo di seta.

Per molti anni mi sono recata nel Cortile del Podestà, anche quando la mia contrada non era in Piazza, per scoprire e assaporare e immergermi in questa nuova opera d’arte che ogni volta si propone diversa eppure fedele a se stessa. Con la curiosità, l’interesse, il desiderio, la volontà di poggiare lo sguardo su quella seta, consapevole che di lì a poco sarebbe andata ad arricchire uno dei diciassette musei che fanno di questa città qualcosa di unico, seppur continuiamo a non accorgerne e non valorizzarli (trovatemi un’altra città che ha un museo diffuso sul territorio di questa portata e gestito e conservato dal solo sforzo volontario…).

Negli anni alcuni Drappelloni mi hanno affascinato e entusiasmato. Altri mi hanno indignato e rattristato. Di molti di questi (per la fortuna che mi regala il mio lavoro) ho scritto così da averli dovuti osservare da vicino, studiare, capire. O almeno di aver tentato di farlo.

Stasera non c’ero. Non soltanto perché spinta dalla necessità fisica di riposare altrove la mia mente, nelle uniche poche ore di respiro di questa estate affannata e intensa. Certo, anche da quello, ma non sarebbe stato abbastanza se fossi stata interessata davvero. Il punto è che questi Drappelloni non mi entusiasmano e non mi affascinano e non mi stimolano più.

Che troppo spesso, nel passato recente, la mia curiosità e il mio interesse e la mia volontà di capire sono stati frustrati da ‘opere’ stanche, precise nell’affrontare il compito che era stato loro assegnato, mai nuove, mai vive, mai ardite, che mai osavano rompere uno schema in quello che sembrava un unico misero tentativo di piacere, di strappare l’applauso nel Cortile, applauso che – diciamoci la verità – ormai non si nega più a nessuno, perché non c’è lo spirito critico in grado di discernere ciò che piace da ciò che non piace, ciò che vale da ciò che non vale niente.

Sono lontani i tempi dei Botero e degli Arroyo e dei Jim Dine e dei Mitoraj. Ma anche dei Pizzichini (senese, non è un discorso esterofilo, il mio…) o degli Ontani – che io non ho amato affatto (Ontani, dico), ma che almeno portava con sé una carica di rottura o un’ardita volontà di metterci qualcosa di personale. In tempi recenti solo il Cencio bianco di Francesco Carone ha avuto, per me, un significato degno, tale da essere definito opera d’arte. Il resto passa e lo dimostra il fatto che nessuno di noi si ricorda, anno dopo anno, come siano stati i Drappelloni precedenti.

La realizzazione del Cencio – che dovrebbe o potrebbe essere un momento in cui la cultura radicata nelle origini della città si mescola con la contemporaneità del mondo, quando non addirittura con la sua avanguardia – è diventata una passerella scontata. L’opera ha perso il proprio significato e il rito è stato svilito, spogliato della sua pregnanza artistica e culturale.

Io non ho visto il Drappellone dipinto dal bulgaro Dimitrov – in omaggio alla candidatura a Capitale Europea della Cultura 2019 – che è stato presentato poche ore fa. Ho sbirciato qualcosa su internet, ma no ho ascoltato le parole, non l’ho osservato da vicino, non ho sentito la vibrazione dell’Entrone perché ho deciso di non esserci. Avrò tempo e magari sarà proprio questo a farmi cambiare idea, chissà. Il punto è un altro. Il punto è che una volta, quando dicevamo “io lo prenderei anche bianco“, volevamo significare che l’emozione, la passione, al libidine che si scatenano con una vittoria fanno passare in secondo piano tutto il resto, figuriamoci la fattura di una seta. Ora, invece, quando diciamo “io lo prenderei anche bianco” significa che non ci importa più. O che, peggio ancora, non noteremmo la differenza.

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