Tutte noi da ragazzine ci mettiamo almeno una volta con un tipo ‘strano’. Uno di quelli che ci serve – o almeno così ci pare – per dimostrare la nostra ribellione nei confronti del potere costituito. Ovvero per sentirci ganze e diverse rispetto ai nostri genitori, alle nostre amiche, alla “società che ci giudica”. È (quasi) una tappa obbligata e solitamente dura poco, non tanto perché il tipo in questione sia ‘strano’ in qualche modo malato o pericoloso, ma semplicemente perché ci accorgiamo in fretta che, al di là della sua ipotetica ‘stranezza’, in lui troviamo poco o niente. Vabbè, anche io da ragazzina mi sono messa con un tipo ‘strano’. E chiaramente è durata poco.
La sua presunta ‘stranezza’ si era dimostrata anche mentre stavamo insieme. Altri giri, altra gente rispetto al mio solito mondo, altre abitudini. Sì, è vero, un po’ borderline a tratti ma d’altronde in ogni diciottenne femmina c’è un insidioso cromosoma della crocerossina e tanto più lui ha bisogno di essere ‘salvato’ – meglio se da se stesso, ovviamente – tanto più quel cronomosa inizia a prendere forza. “Io ti salverò” ci gratifica come poche cose al mondo (e spesso ci restiamo fottute anche quando non siamo più ragazzine, ma questa è un’altra faccenda).
Insomma, io mi ricordo mia mamma quando io e lui ci siamo lasciati. I miei hanno sempre avuto questa forma di fiducia reale e di rispetto cosmico nei miei confronti per cui non si sono mai permessi non solo di giudicare ma nemmeno di esprimere opinioni sui miei fidanzati, se non dopo, quando mi vedevano stare davvero male per qualcosa o quando addirittura quelli diventavano ex. Però mi ricordo mia mamma che iniziò a ripetere come un disco “non rivederlo, se vuole rivederti, se ti chiede di parlare, di chiarire, se ti deve restituire qualcosa, non rivederlo da sola, non andate via in macchina, non andare da lui, vedetevi al bar“.
Diciamolo, non che lui avesse dato segni pericolosi. È vero, a volte anche quando stavamo insieme era stato un po’ sopra le righe. Abbiamo fatto qualche discreta sfuriata, ma anche io ci mettevo del mio, non ero esattamente un cucciolo da ragazzina. Magari qualche colpo di testa, dopo, qualche manovra un po’ troppo eccentrica, qualche irruzione in un luogo dove sapeva di potermi trovare, qualche tentativo di avvicinare le mie amiche o biglietto lasciato sul motorino. Lo stalking non esisteva, all’epoca, ma anche se fosse esistito quello non lo sarebbe stato. Mi sembrava una reazione un po’ scomposta di un tipo un po’ ‘strano’ ma non mi sono mai sentita in pericolo. Mai. E tutte quelle storia di mia mamma – “non rivederlo, se vuole rivederti, se ti chiede di parlare, di chiarire, se ti deve restituire qualcosa, non rivederlo da sola, non andate via in macchina, non andare da lui, vedetevi al bar” – mi sembravano francamente eccessive. Preoccupazioni esagerate di una mamma che, come tale, è probabilmente programmata per essere apprensiva. Una volta, a dirla tutta, l’ho pure rivisto in effetti ed è finita a urli, ma poi si è chiusa davvero e oggi io non so nemmeno se sia vivo o morto, se è diventato un padre di famiglia o ha preso il Nobel (no, via, avesse preso il Nobel l’avrei letto da qualche parte).
Non è questo il punto. Il punto è quante volte noi ragazze ci fidiamo dei nostri uomini o ex? Praticamente sempre. Perché tendenzialmente nessuna di noi nega un ultimo incontro a una persona con cui ha condiviso qualcosa di importante e a cui, magari, ha spezzato il cuore. Lasciarsi è difficile, sempre. Per tutti. Perché anche se ognuno di noi pensa che la propria storia, il proprio amore, sia la benedetta eccezione che esiste solo nei romanzi rosa e nei film; anche se ognuna di noi pensa di essere la fottutissima Vivian, poi non lo siamo e i nostri sentimenti sono solitamente uguali a quegli degli altri. Le storie sono uguali, i dolori sono uguali anche se i caratteri e le vicende e gli avvenimenti e i modi di affrontarli sono diversi. Per questo poi non ci neghiamo. Perché non pensiamo davvero che qualcuno che abbiamo amato, con cui abbiamo condiviso, viaggiato, parlato, fatto l’amore, magari vissuto possa davvero farci del male. Pensiamo che possa ferirci con cattiveria verbale, sì, che possa offenderci e insultarci, che possa maledirci, che possa scaricarci addosso di avergli rovinato la vita o minacciare di suicidarsi a causa nostra tentando così di ancorarci al senso di responsabilità o alla paura, ma non pensiamo mai davvero che possa farci male. Qualcuna di noi non ci crede nemmeno quando il male poi lo sente davvero. Addosso.
Io continuo a chiedermelo cosa abbia pensato Sara, strangolata e poi data alle fiamme, l’ultima ‘mediatica’ vittima di femminicidio (ma non l’ultima in senso stretto, ce ne sono state altre tre dal 28 maggio a oggi: Michela a Pordenone, Alessandra a Verona, Slavica a Trieste). Mi chiedo cosa l’abbia spinta a dire sì a quell’ultimo incontro, addirittura con un uomo che, pare, temeva. E ci pensavo anche prima di sapere di lei. Pensavo a Michela – un’altra Michela – fiorentina, 32 anni, uccisa a pochi chilometri da casa mia dall’ex marito che poi si è suicidato. “Ti devo ridare i vestiti” le ha detto per convincerla a salire in macchina. E lei è andata, come probabilmente avrei fatto io, come forse avremmo fatto tutte. Michela potevo essere io, non solo per vicinanza geografica e anagrafica.
È per questo che io non riesco a capacitarmi. Non riesco a capacitarmi di come facciamo noi donne a sopportare in silenzio senza ribellarci, senza difenderci prima che questo accada, senza metterci in salvo quando siamo ancora in tempo. E non capisco, cazzo, davvero come facciate voi uomini a farci questo. I dati ufficiali del Telefono Rosa dicono che da gennaio 2015 ci sono stati quasi 9000 casi di violenza sulle donne e oltre 1200 casi di stalking, ma che in realtà il 90% delle vittime non sporga nemmeno denuncia. I dati ufficiali dicono che solo nel 2016 sono state ammazzate almeno 58 donne, vittime di femminicidio. Significa che le hanno ammazzate i loro presunti partner o, più spesso, ex partner. Non chiamateli delitti passionali che qui la passione non c’entra. C’entra il possesso, che è assai diverso. C’entra l’aver smesso di considerare una donna come un individuo e aver iniziato a considerarla un oggetto. Una proprietà sui cui avere diritto di scelta e, quindi, anche di vita e di morte. C’entra l’aver iniziato a sostenere che un comportamento altrui giustifichi o addirittura legittimi il comportamento proprio.
Sulla libertà delle donne, acquisita sulla carta eppure troppo spesso negata con lo sguardo, con la parola o peggio che mai con l’azione, avevo già scritto l’estate scorsa, alla luce della sentenza di NON stupro di gruppo ai danni di una ragazza fiorentina. In quel pezzo rivendicavo il diritto di gestire il mio corpo come io ritengo giusto, a prescindere dalle opinioni altrui. Oggi rivendico il diritto di lasciare un fidanzato senza morire ammazzata. E di vivere in un Paese che questa strage non la permette.