L’impiegato della Siae è lombrosiano. Tarchiato, ripiegato su se stesso, affondato su una poltrona troppo bassa, dietro a un bancone troppo alto che praticamente lo nasconde tutto.
Mi affaccio dalla porta semiaperta. Alza a mala pena gli occhi su di me, mi guarda scocciato, come se avessi interrotto qualcosa di molto importante. “Dovrei fare dei permessi – dico – posso parlare con lei?“. “Vedrà, ci sono solo io“. Non si comincia bene.
Gli spiego la cosa, mi appare assai banale: un concerto lirico, un pianista e due cantanti che ripropongono arie tratte da varie opere. Breve, completamente gratuito, un omaggio a un grande interprete del passato da regalare alla città. Semplice, lineare. In più, arrivo decisamente preparata: ho il programma, i nomi dei cantanti, la delega del legale rappresentante dell’ente organizzatore che mi autorizza a firmare, i soldi contanti.
Ho tutta questa roba perché esattamente dodici mesi fa ho fatto la stessa tiritera. Stesso concerto banale, lineare. Mi chiesero talmente tanti fogli e moduli e lettere che stavolta sono venuta pronta. Conto sul fatto che il potente archivio digitale della Società verrà in nostro aiuto: sarà sufficiente inserire il nome dell’organizzatore e tutto apparirà a video. Basterà cambiare la data e il programma delle arie. E via.
Illusa. Dal potente archivio digitale è sparito tutto. Inesistente. “Una cosa del genere non l’avete mai fatta” sibila lui. “Ma se ho firmato io stessa i moduli…” ribatto io, tentando di convicerlo. Niente da fare. Si ricomincia da capo. Nome. Cognome. Chi organizza. Dove. Quando. Dati fiscali. Delega. Dati anagrafici del delegante. Dati anagrafici del delegato. E via, andare…
Con aria annoiata e completamente disinteressata, sbadigliando e tenendo la testa appoggiata sul pugno, puntellando col gomito sul tavolo, l’impiegato continua a ritmare quelli che a me sembrano inutili clic su un mouse che non riesco a vedere, da questo lato del bancone. Andiamo avanti così. A lungo. Nel silenzio caldo, interrotto solo dal rumore costante di quello che potrebbe essere un impianto di condizionamento evidentemente in affanno.
Il silenzio, il vooooooooooooom sordo e basso e costante, e lui: clic, clic, clic, clic.
Ogni tanto, senza alzare lo sguardo, ripete una domanda che mi ha già fatto.
“Che giorno ha detto?“. “Di settembre?“. “A che ora?“. “Dove ha detto che è?“. “Ma è all’aperto?“. No, maledizione, non é all’aperto. E’ in una chiesa. Decisamente non è all’aperto. E così via.
Io intanto sbuffo. Attingo a tutte le regole basilari della comunicazione non verbale e del linguaggio del corpo per fargli capire quanto mi stia innervosendo. E quanto io consideri ridicola la situazione. Insisto nella mia protesta silenziosa. Aggiungo quella sonora quando mi squilla il telefono e mi dilungo in lamentele su questo Paese ingessato, mal gestito e preda di sonnacchiosi impiegati che non sanno bene come passare il tempo. Alla fine sbotto: “Ho da fare altri quattro permessi. Che faccio, chiedo un giorno di ferie?“.
Lui mi ignora. Continua, inesorabile.
Vooooooooooom. Clic, clic, clic.
“Quanto ha detto che dura ogni brano?“. Non lo so. Non ne ho idea.
Mi siedo. Prendo il telefono e inizio a scrivere. I clic, clic, clic dei tasti insilenziabili del mio Blackberry fanno concorrenza a quelli del suo mouse. Ma i miei sono rapidi, veloci, ritmati. Saltellano nell’aria come piccoli grilli. I suoi sono tonfi lenti e sordi, distanziati, pesanti. Affondano come le falcate di un elefante che si fa spazio a fatica nella giungla.
Mi guarda scocciato. Tutti i miei rumori lo disorientano. Sembra volermi dire che dovrei avere più rispetto del suo lavoro, anziché importunarlo. Poi, di colpo: “Abbiamo finito“, dice. Adesso alza lo sguardo su di me. “Sono stato abbastanza veloce?“. Abbozza un sorriso. Non capisco se mi sfotte o se è il suo modo di scusarsi, magari per una procedura poco frequente o per un problema col server o chessòio. Per un attimo cedo alla tentazione di cancellare quello che ho scritto.
Poi decido, invece, che 56 minuti esatti e 367 euro mi diano il diritto di andare fino in fondo.
MORALE DELLA STORIA: mai fare incazzare una donna con uno smartphone in mano.