In effetti, quando ho visto l’ago ho avuto un secondo di brividi. Avevo chiesto all’infermiera – con l’aria spavalda del ‘io non ho paura‘ – se l’ago fosse lo stesso dei prelievi e lei sorridendo aveva detto, “no, è un po’ più grosso”. In effetti. Ora, su, non vi spaventate e non facciamola tanto lunga. Il brivido è durato un secondo. È bastato non guardare. Perché, sì, io non ho paura, ma l’ago preferisco non guardarlo. Chiamatela, privacy.
Insomma, il brivido è durato un secondo. La donazione poco più di otto minuti. Otto minuti e nove secondi, per la precisione. Come lo so? L’ho chiesto. E mi hanno detto, “vai velocissima, a sessanta chilometri all’ora” che chiaramente era una battuta, ma in effetti c’era un macchinario attaccato al mio braccio che lampeggiava numeri di cui ignoro il senso e che ha suonato dopo, appunto, otto minuti e nove secondi. E 450 ml di sangue donato.
Era la prima volta. Secondo tentativo. Due settimane fa mi avevano rimandato indietro perché avevo appena preso dei farmaci; sciocchezze, ma quanto basta perché la legge ti imponga (giustamente) di rimandare la donazione.
Quando mi avevano rimandato indietro, non so se ero più delusa io – che ci ho messo quindici anni a fare questo passo – o loro. Dicevano, “ogni volta che mandiamo indietro qualcuno ci piange il cuore: per noi è un’occasione persa e spesso quello non ritorna, perché si scoccia di aver perso tempo senza fare niente“. Avevo promesso che sarei tornata e l’ho fatto, appena passati i giorni che servivano per legge.
Non perché sono brava. Sono solo una goccia nel mare, mai come in questo caso la metafora è azzeccata. Ma perché ci tenevo. E ci tengo. E perché, egoisticamente, la cosa mi ha reso felice. Anche se, lo confesso, all’inizio un po’ d’ansia ce l’avevo. Mica per niente, ma io con gli ospedali non ci vado tanto d’accordo. Però era tanto tempo che raccontavo a me stessa di voler diventare donatrice e non lo avevo mai fatto. Tante scuse, tutte valide. Tanti alibi. E soprattutto l’idea che fosse una cosa complicata.
Non lo è affatto. Tanto più che non serve appartenere a nessun gruppo – puoi andare semplicemente come libero cittadino – e che a Siena addirittura c’è un comodo servizio di prenotazione. Telefoni, prendi appuntamento e in meno di un’ora sei fuori, colazione (offerta) compresa. Chi non ha un’ora di tempo?
Ho sempre apprezzato molto chi fa per gli altri: i volontari, di qualsiasi specie siano e in qualsiasi campo operino. Io non ne ho il fegato. Ma questa è una cosa semplice. Che non costa niente e che può fare chiunque – basta che sia maggiorenne, sano e pesi più di 50 chili (ahimè…). E quando vedi come ti guardano, mente ti coccolano – e in realtà controllano che non ti venga un colpo o tu non faccia cencio sulla poltroncina – e ti raccontano quanto bisogno c’è, soprattutto d’estate, perché la richiesta è più alta e le donazioni inferiori, ché la gente va in ferie e se ne dimentica o non è abbastanza informata, insomma ti rendi conto che stai facendo qualcosa di bello; di piccolo, insignificante, microscopico, ma comunque bello,
La sensazione, quando esci di lì, è forte. Loro ti guardano e ti salutano dicendo “ci vediamo la prossima volta, grazie davvero“. E tu sai che tornerai. Senza alcun dubbio.
ps – Questo articolo è stato selezionato per l’Italian Blood Award, un concorso che mette al centro la creatività, la forza, il genio, la bravura e il talento al servizio della donazione di sangue. E in quella edizione arrivò secondo.