Nel giardino di casa, proprio al centro dell’aiuola, c’era un albicocco. Narra la leggenda familiare che fosse stato piantato quando sono nata io, regalo del mio nonno per me (ma su questo va fatta la dovuta tara; come è noto, in casa mia la tradizione orale è suscettibile di variazioni corpose a seconda del narratore ed è verità assoluta che la memoria storica più attendibile fosse quella di mia mamma…). In ogni caso, quel che è certo è che nel giardino di casa mia, al centro di un’aiuola c’era un albicocco.
Per essere un albero da frutto era praticamente enorme. Non abbastanza da ospitare una casa sull’albero (che comunque non avrei avuto; quanto avrei voluto una casa sull’albero…!), ma abbastanza perché io potessi salirci facendo scala su un nodo del tronco e “accomodarmi” – se così si può dire – nella prima diramazione dei rami grossi. Si creava, lì, una sorta di seggiolino; non particolarmente comodo, come è ovvio, ma nemmeno orribile. Comunque utilizzabile. Considerando che io ero parecchio più leggera e agile di ora e che a volte mi portavo su un cuscino delle sedie da giardino, era un buon posto dove andare a leggere, soprattutto d’estate.
[Evidentemente già allora ero affascinata da questa visione bucolica e immaginifica di una vita sospesa tra la cultura e la campagna. Campagna che – per inciso – ho odiato ferocemente negli anni successivi dell’adolescenza e della giovinezza, quando anche quei pochi chilometri che mi separavano dal centro parevano un abisso. E che invece ho ricominciato ad apprezzare da grande, non abbastanza da mollare tutto e trasferirmi in un casolare a fare la fattoressa, ma abbastanza per fantasticare che un giorno potrei anche farlo. Con l’orto e tutto il resto].
Insomma, da ragazzina stavo sull’albicocco a leggere. E quello, per essere un albicocco, era oggettivamente sproporzionato. Era alto, con i rami più grossi e solidi, molto più forte dei normali alberi da frutto. O almeno degli altri due che c’erano nel mio giardino e che erano tutto ciò che io sapevo sugli alberi da frutto. Ed era prolifico. Enormemente prolifico. Faceva una quantità di albicocche che avremmo potuto quasi venderle, se mia nonna non si fosse messa all’anima ogni volta di farne marmellata che andava avanti tutto l’inverno.
L’albicocco è campato parecchio; non ricordo quanto, ma comunque più dei normali alberi da frutto. E si è scoperto poi – non so bene come, forse durante dei lavori – che esattamente sotto le sue radici si passava la fossa biologica. La fogna. Sostanzialmente le sue radici affondavano in una terra naturalmente concimata. Cioè, insomma, nella merda.
Quando l’albicocco è morto, in quell’aiuola è stato travasato un olivo che era da anni in un bel vaso di terracotta, di quelli tipici della campagna toscana. Anche l’olivo era stato regalato non ricordo più in quale occasione e per anni era rimasto nel vaso, chiaramente senza crescere – che, si sa, nel vaso non è che puoi crescere più di tanto. Quando l’olivo ha preso il posto dell’albicocco al centro dell’aiuola non si era convinti del tutto che sarebbe campato; nuovo spazi, diversa esposizione, niente più protezione del muro della casa, i cambiamenti alle piante non fanno necessariamente bene e questa poteva essere una conferma. Invece l’olivo si è adattato ed è campato. E anche lui ha iniziato a crescere in un modo assurdo, diventando una specie di albero. Adesso è lì nell’aiuola da anni, una specie di olivo gigante da potare come fosse un albero da fusto.
Mi piace pensare che sia ancora merito della fossa biologica. Che non tutta la merda che ti capita debba per forza essere un male. Che affondare le radici nella merda sia un buon modo per rafforzarsi e resistere e crescere ancora. Sarebbe una bella metafora e anche un po’ una filosofia di vita.