Cronache dal Covid (due anni dopo)

ovvero, cosa non abbiamo imparato

Ho avuto il Covid (come un’altra marea di gente) e sono rimasta impantanata in un tutto quello che, nel sistema, non funziona.

Il primo tampone l’ho dovuto fare in privato, a pagamento, perché nel pubblico non c’era verso [e non era ancora scoppiata l’ondata di natale]; la centrale di tracciamento dell’Asl mi ha chiamato dopo 4 giorni e dopo che avevo scritto un articolo cattivo sul Corriere Fiorentino; i sacchi per i rifiuti “contaminati” non me li hanno mai portati; il tampone di controllo per uscire dall’isolamento è stato refertato dopo 4 giorni – di fatto tenendomi isolata senza motivo dal lunedì al venerdì (e chi paga questi giorni non lavorati? nel mio caso specifico da libera professionista io stessa, ad esempio…)

Ho passato tutte le feste di Natale in “cameretta” – e io sono una di quelle fortunate perché avevo un po’ di spazio a disposizione e un giardino in cui poter uscire. E sono fortunata perché sono stata male solo un paio di giorni, ma mai malissimo; perché non ho contagiato le persone fragili che avevo intorno; perché ho trovato nell’USCA personale cortese e professionale che mi ha visitato a casa e mi ha fatto sentire meno sola. E perché, infine, ho avuto un sacco di persone che mi hanno chiamato, scritto, portato generi di prima necessità e regali e – considerando che io sono di base una brutta persona – tutto questo mi ha fatto sentire meno brutta.

Però, oh: dopo due anni siamo ancora a combattere con qualcosa che non funziona. Siamo ancora a rincorrere l’emergenza. Ed è vero, certo, che i casi sono decuplicati in pochi giorni e che – oddìo – “nessuno se lo poteva aspettare!”, però accidenti qualcuno che fa programmi a medio-lungo termine dovrebbe pur esserci da qualche parte; qualcuno che disegna scenari possibili, che applica modelli matematici e ipotesi o che so io, tutte quelle cose complesse che per noi comuni mortali sono incomprensibili ma che servono quando sei in balia di un disastro sanitario, economico e sociale che va avanti da quasi due anni. Non possiamo ogni volta accettare di essere colti di sorpresa.

Invece sì, siamo stati colti di sorpresa e io personalmente – che da giornalista, da due anni, leggo e commento e diffondo notizie sulla pandemia, comunicati stampa, interviste e promesse su tutto quello che abbiamo imparato – ecco io forse sono stata colta ancora più di sorpresa nel capire che invece, forse abbiamo imparato ben poco.

Personalmente, ho imparato che ci può essere – che anzi c’è, senz’altro – mota gente preparata e di buona volontà che lavora con serietà e impegno ma che non può nulla se il sistema non funziona. Ho imparato che bisogna avere fortuna perché puoi seguire tutte le regole nel modo più scrupoloso, ma tanto alla fine parecchio sta in quello che decide la sorte. Ed ho anche imparato che quando entri nel sistema della burocrazia – dei moduli, delle caselline da flaggare, della comunicazione tra uffici o reparti diversi – quando insomma sei un anello di una catena, allora diventi solo un numero e smetti di essere una persona. Perché al sistema, spesso, delle tue esigenze, fragilità, ansie, questioni e problemi gli interessa ben poco. Devi avere solo la fortuna di trovare, dall’altra parte della burocrazia, una persona con un po’ di garbo.


Per inciso: ero una di quegli inguaribili ottimisti che, all’inizio di tutto questo, dicevano che ne saremmo usciti migliori. A questo punto, direi che mi basterebbe uscirne.


[in copertina, con la gatta alla finestra a guardare l’isolamento – non è stata felice di avermi in giro h24. ma non lo sono stata neanche io]

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