Ok. Devo dire la mia. Perché già il fatto che nessuno mi abbia nominato, e che quindi io non abbia potuto postare sui social network un video in cui mi tiro in testa acqua gelida, fa di me un “signor nessuno” (non saranno considerate valide le nomination fatte apposta o a dispetto dopo il presente post, ndr); se addirittura non esprimo neanche la mia illustre opinione al riguardo sono davvero e definitivamente esclusa dai temi caldi dell’estate. Quindi, dicevamo: Ice Bucket Challenge, ovvero “gavettone gelato da filmare e diffondere world wide”.
Avvio, inevitabilmente, dalla grande madre patria, ovvero gli Stati Uniti d’America. 2,4 milioni di video condivisi (stime attuali), 70 milioni di dollari di raccolta fondi a favore dell’associazione che si occupa di sensibilizzare e sostenere la ricerca per combattere la Sclerosi Laterale Amiotrofica (Sla), malattia neurodegenerativa di cui in Italia si è sentito parlare solo ‘grazie’ (perdonatemi il termine) all’ex calciatore della Fiorentina, Stefano Borgonovo che la rese pubblica, prima di morirne nel 2013.
La provocazione lanciata dalla campagna, inizialmente, era semplice: o ti fai una doccia gelata, oppure non te la fai e sganci una donazione. Nel frattempo, ti fai un video, lo metti on line e nomini qualcun altro affinché faccia lo stesso. Così che la catena si moltiplichi, grazie alla ‘panacea di tutti i mali’, ovvero la Rete.
Fin qui, tutto bene. Senonché, come nella migliore delle tradizioni, vuoi che ci facciamo sfuggire la nostra dose di polemica quotidiana? Sia mai..
E quindi, nell’ordine, ecco le critiche principali:
– i vip si nominano solo tra vip, che amarezza (perché, in effetti, la doccia di Renzi o di Shakira dovrebbe essere più interessante della mia…? Sigh);
– i vip si tirano secchiate ma poi non sganciano un euro e usano la cosa solo per farsi auto promozione (che comunque si fanno spesso con tanti altri mezzucci ben più squallidi..);
– i non vip si infiltrano nella maratona del secchio perché così si sentono vip per un giorno;
– quanta acqua sprecata quando in Africa i bambini muoiono di sete;
– la beneficenza si fa in silenzio e di nascosto (per la verità, praticamente solo in Italia: negli Usa, dove la Ice Bucket Challenge è nata, sulle iniziative di charity si va avanti a gonfie vele da decenni e a reti unificate…);
– perché tutto questo can can per la Sla quando ogni giorno la gente muore di un sacco di malattie, in silenzio, e ci sono migliaia di ricercatori e medici che compiono il loro dovere-missione senza farsi notare.
Soltanto per limitarsi agli esempi più diffusi. Tutti legittimi.
Ora, qualche numero:
– negli Stati Uniti dove la campagna è partita l’associazione per la lotta alla Sla (ASL association) ha raccolto – dichiarato ieri – circa 70milioni di dollari dal 29 luglio, rispetto ai poco più di 2 milioni nello stesso periodo dello scorso anno;
– in Italia, la Aisla ha dichiarato stasera di aver superato i 300mila euro di donazioni, e manca il dato dei movimenti bancari nel weekend.
Bruscolini, diremo noi, soprattutto quelli italiani, che si confermano miseri, spilorci, che usano il dolore per farsi pubblicità, e che con 300mila euro la ricerca non si finanzia e non si fa neanche l’assistenza domiciliare ai malati. Va bene. Giusto.
Però:
+ 58.400% nuovi like sulla pagina Facebook di Aisla Italia;
+ 80.500 % utenti coinvolti;
+ 85.500 % portata dei post con interazione degli utenti;
143mila utenti unici e 339mila pagine vistate per il sito aisla.it solo in questo weekend;
passaggi quotidiani ripetuti su TUTTE le testate di informazione, cartacee, radiotelevisive, digitali.
Che significa? Che tutti ne parlano. TUTTI. A costo zero. Forse soltanto chi si occupa di comunicazione e conosce il mondo delle associazioni no profit (continuamente bisognose, appunto, di fondi e quindi alla ricerca di operazioni a basso costo) può capire davvero la portata di questa operazione. La portata di questa operazione è semplicemente fenomenale.
Il risultato in termini di consapevolezza, informazione, comunicazione, esposizione e presenza mediatica, rimbalzo positivo del messaggio è fenomenale. Significa che oggi tutti, TUTTI, hanno sentito parlare forse per la prima volta in vita loro della Sla. Fosse anche soltanto per vedere la maglietta bagnata di Elisabetta Canalis o di Robert Pattinson. O per scherzare e prendersi gioco di Mourinho o di Galliani. O per curiosare su chi avrebbe nominato Maria De Filippi o chiedersi se Papa Francesco avrebbe risposto alla nomination di Shakira (no, non lo ha fatto, ve lo dico io).
Questo, per una campagna di sensibilizzazione, è un risultato stratosferico. Soprattutto in un momento di crisi come quello attuale in cui fare beneficenza è, ahimè, l’ultima delle preoccupazioni e in cui i soggetti che hanno davvero bisogno sono talmente tanti che anche quando vuoi farla non sai nemmeno a chi serva di più. Anche quella della beneficenza da accaparrarsi è una giungla. Tanto più se si spera di ‘sfondare’ la prima pagina di una testata nazionale o il prime time di un Tg.
Quindi, ben venga la secchiata di ghiaccio world wide. Certo, se a questo seguisse la donazione a pioggia sarebbe meglio. Ma chi si occupa di marketing – perché di questo, qui, stiamo parlando – sa bene che il miglior cliente è il cliente fedele, non quello che spende una tantum. E allora, magari, da oggi in poi qualcuno in più saprà cosa è la Sla e cosa è aisla.it; e magari parteciperà a altre iniziative di beneficenza; e magari in altre occasioni donerà o comprerà le arance o le mele o forse a Natale deciderà di comprare qualche puttanata in meno e di devolvere il proprio budget da regali inutili a qualche associazione per la ricerca. O a chi crederà più opportuno. Io lo faccio da anni, non mi sono tirata un secchio d’acqua in testa, non ho postato fantomatiche ricevute di bonifico e continuerò a farlo, anche senza video su Facebook.
Sarà poco, sarà una goccia nell’oceano delle necessità insormontabili che affrontano quotidianamente i malati, i familiari, i ricercatori, i medici, i volontari e tutti coloro che toccano con mano la Sla e tutte le altre malattie stronze – così la chiamava Stefano Borgonovo, la “stronza” – o rare, quelle su cui nemmeno le case farmaceutiche investono perché i pazienti sono troppo pochi e il gioco della ricerca non vale la candela del guadagno.
Solo una goccia nel mare. Ma c’è. E come mi disse una volta un esperto maratoneta, per quanto piano tu possa correre e per quanta poca distanza tu possa coprire, farai sempre di più di quello che sta seduto sul divano. Secchiatevi, se vi aggrada. E lo capisco che è ancora estate ma nel frattempo, magari, parliamo anche di qualcos’altro.